La Musa Tersicore di Antonio Canova

Nella sala dei gessi è collocato un capolavoro di Antonio Canova: il prezioso modello originale in gesso della Musa Tersicore, firmato e datato 1811

Si tratta di un’opera straordinaria per la sensibilità plastica nella resa della posa e del panneggio; è rappresentata Tersicore, Musa della danza e del canto corale, come ci suggerisce la cetra che stringe nella mano sinistra.

Di questa statua Giovanni Battista Sommariva possedeva anche la versione in marmo, che conservava nella camera da letto del suo palazzo di Parigi ed era uno dei vanti della sua collezione. Dopo la sua morte fu trasferita in Italia dai suoi eredi e attualmente fa parte della collezione della Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo presso Parma. Un’altra versione autografa si trova al Cleveland Museum of Art e fu eseguita nel 1814 - 1816 per il collezionista inglese Simon Houghton Clarke.

La storia dell’opera

Antonio Canova (Possagno 1757 - Venezia 1822) inizia la realizzazione dell’opera nel 1808 su richiesta della famiglia Bonaparte: la statua doveva essere un ritratto divinizzato di Alexandrine Bleschamps, moglie di Luciano Bonaparte, fratello minore di Napoleone. Per ragioni ancora sconosciute nella commissione subentra poi Giovanni Battista Sommariva, che a Villa Carlotta (allora Villa Sommariva) stava creando il suo tempio del Neoclassicismo e acquistava e commissionava opere d’arte dei più importanti artisti dell’epoca, fra cui Antonio Canova. Su richiesta del nuovo committente e mecenate, Canova idealizza il volto e i lineamenti, che non sono più quelli di Alexandrine Bleschamps.

Canova e Sommariva stringono un rapporto di stima e fiducia reciproche e tra le numerose opere dell’artista acquistate e commissionate dal collezionista la Tersicore è una delle sue preferite: l’ossessione e l’amore per questa scultura erano così forti che Sommariva acquista non solo la statua in marmo (che era esposta nel suo palazzo parigino), ma anche il modello in gesso per assicurarsi l’esclusività dell’opera.

“La di Lei Primogenita, ed Unigenita Figlia, mia Sposa, fa le delizie mie, e di tutti gli amatori ed artisti, che non si stancano di venire ad amirarla replicatamente. Ora essa è alla piazza del mio letto sul piedistallo, che vi torna a meraviglia ”.

Così scrive Sommariva a Canova il 31 marzo del 1813, definendo enfaticamente la scultura “mia Sposa”. Ardentemente voluta e desiderata dal mecenate, al suo arrivo nella casa parigina di Sommariva, la statua viene collocata ai piedi del suo letto assecondando il gusto per la sensualità tipico dell’Ottocento: l'aristocrazia e la borghesia nascente, non potendo apertamente apprezzare corpi di donne nude, si circondavano di opere d’arte dalla forte carica erotica che veniva però giustificata e nascosta sotto la nudità tipica delle opere classiche o del nascente gusto per l'oriente.

Come scolpiva Canova

La particolarità del gesso esposto a Villa Carlotta è il fatto che reca ancora intatte le repère, tracce di quel processo creativo con il quale Canova riesce a dare vita ai suoi capolavori. Antonio Canova era solito organizzare rigorosamente la sua attività in modo da aver sotto controllo ogni fase del lavoro. Dal bozzetto in creta, che concretizzava una prima idea dell'opera - spesso anticipata in disegni - si procedeva alla realizzazione di un modello in creta grande al vero. Questo veniva creato usando come base uno scheletro portante composto da un'asta in ferro (alta quanto l'opera da eseguire) che veniva collegata a più piccole aste metalliche munite alle estremità di crocette di legno.

Era così che Canova poteva valutare, prima di iniziare a scolpire, l'effetto generale della sua opera. II passaggio dal modello in creta a quello in gesso avveniva grazie alla tecnica della forma persa: si rivestiva il modello in creta di un leggero strato di gesso rossastro e quindi di un ulteriore strato di gesso bianco che, indurendosi, andava a formare un vero e proprio calco.

Separato dal modello in creta, il calco veniva nuovamente riempito di gesso al fine di creare un nuovo modello tridimensionale. Appena l'indurimento del gesso lo consentiva, il calco esterno veniva distrutto procedendo con la massima cautela al comparire dell'intonaco rossigno. Sul modello in gesso così ottenuto venivano inserite le rèpere, chiodini di ferro che venivano usati dagli allievi come punti di riferimento e consentivano di trasferire le misure del gesso sul blocco di marmo per procedere alla sua sbozzatura.

L'opera era quindi pronta per ricevere quella che lo stesso Canova chiamava l'ultima mano: fase del lavoro esclusivamente riservata al maestro, che si dice lavorasse a lume di candela per garantire una perfetta resa dei volumi e delle ombre. Altri sostengono che il maestro lavorasse ascoltando i testi antichi, come l'Odissea, declamati ad alta voce da aiutanti assunti con questa mansione.

Per rendere le sue statue ancora più vive, Antonio Canova usava stendere sulle parti epidermiche una speciale patina che rendesse l'idea della morbidezza della pelle. Lo scopo della patina – ottenuta con materiali più diversi e di cui oggi non rimangono che rare tracce - era anche quello di anticipare gli effetti del tempo, assicurando all'opera una sorta di perenne armonia.

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